In questa pagina:
- Fra storia e leggenda
- Il Crocifisso
- La lamintanza
- Fra storia e leggenda
- Il Crocifisso
- La lamintanza
Fra storia e leggenda
Secondo quanto si tramanda da secoli, un giorno - siamo intorno al XIV secolo - due raccoglitori di erbe selvatiche (fogliamari), spinti da un qualche divino suggerimento, rinvennero in una grotta, nei pressi del Largo Scribano (attuale incrocio fra Via Roma, Viale Amedeo e Via Pietraperzia), un piccolo Crocifisso ligneo, con la pelle bruna, fra due ceri accesi.
Probabilmente si trattava di una chiesa rupestre, che si trovava in zona rurale e che era stata dimenticata. Data la presenza di eremiti nella zona fino a tempi recenti, si potrebbe ipotizzare che i ceri fossero stati posti da un eremita, che viveva nella grotta e che, morendo, abbia "lasciato" alla città quel piccolo tesoro.
Secondo la leggenda popolare più volte si cercò di pulire il Crocifisso, ma, nonostante sembrasse tornare bianco, il giorno dopo lo si ritrovava nero. Poco ci volle perché il prodigioso ritrovamento valicasse le stanzette delle povere case di quei lavoratori per giungere in ogni parte della città di Caltanissetta.
Poco distante dal luogo del ritrovamento si trovava la chiesa di S. Leonardo, che fu la prima chiesa ad accogliere il simulacro, finché, fu distrutta da una frana. La pietà popolare, nello stesso periodo del ritrovamento, edificò una piccola chiesetta, detta del Santissimo Crocifisso, proprio a limite del Vallone, vicino alla chiesa di S. Nicolò, che dovette rovinare non molto tempo dopo. Non sappiamo se la chiesetta fu costruita proprio in quel punto, perché era il primo luogo edificabile, essendo il resto molto dissestato, né sappiamo se avvenisse ciò che avviene ancora oggi per S. Michele o per l'Immacolata, ossia una processione che portasse il Crocifisso dalla chiesa di S. Leonardo (dove "risiedeva" abitualmente) alla chiesetta del Signore della Città (dove andava in "villeggiatura"), le notizie sono scarse, perché di Caltanissetta non si conserva quasi nessun documento che sia antecedente al XVI secolo.
I nisseni subito si affezionarono a quella delicata immagine del Signore Crocifisso, e ben presto non si poterono più contare i prodigi, fu così che, per spontanea proclamazione, il Crocifisso divenne il Signore della Città, titolo che ancora oggi detiene.
Le fonti storiche confermano che, dopo S. Maria, titolare della prima Chiesa Madre di Caltanissetta, il Signore della Città fu il patrono indiscusso di Caltanissetta e il Venerdì Santo, giorno in cui si venera in modo particolare il Crocifisso e si porta in processione per le strade della città, divenne il punto focale da cui partiva tutta la vita sociale e religiosa di Caltanissetta.
La processione, che tuttora è la più imponente della città (insieme a quella di S. Michele), è grandemente solenne, benché manchi di quel clima gioioso delle processioni dei Patroni, per cedere il posto a un clima orante, in considerazione del giorno della Passione di Nostro Signore.
Probabilmente si trattava di una chiesa rupestre, che si trovava in zona rurale e che era stata dimenticata. Data la presenza di eremiti nella zona fino a tempi recenti, si potrebbe ipotizzare che i ceri fossero stati posti da un eremita, che viveva nella grotta e che, morendo, abbia "lasciato" alla città quel piccolo tesoro.
Secondo la leggenda popolare più volte si cercò di pulire il Crocifisso, ma, nonostante sembrasse tornare bianco, il giorno dopo lo si ritrovava nero. Poco ci volle perché il prodigioso ritrovamento valicasse le stanzette delle povere case di quei lavoratori per giungere in ogni parte della città di Caltanissetta.
Poco distante dal luogo del ritrovamento si trovava la chiesa di S. Leonardo, che fu la prima chiesa ad accogliere il simulacro, finché, fu distrutta da una frana. La pietà popolare, nello stesso periodo del ritrovamento, edificò una piccola chiesetta, detta del Santissimo Crocifisso, proprio a limite del Vallone, vicino alla chiesa di S. Nicolò, che dovette rovinare non molto tempo dopo. Non sappiamo se la chiesetta fu costruita proprio in quel punto, perché era il primo luogo edificabile, essendo il resto molto dissestato, né sappiamo se avvenisse ciò che avviene ancora oggi per S. Michele o per l'Immacolata, ossia una processione che portasse il Crocifisso dalla chiesa di S. Leonardo (dove "risiedeva" abitualmente) alla chiesetta del Signore della Città (dove andava in "villeggiatura"), le notizie sono scarse, perché di Caltanissetta non si conserva quasi nessun documento che sia antecedente al XVI secolo.
I nisseni subito si affezionarono a quella delicata immagine del Signore Crocifisso, e ben presto non si poterono più contare i prodigi, fu così che, per spontanea proclamazione, il Crocifisso divenne il Signore della Città, titolo che ancora oggi detiene.
Le fonti storiche confermano che, dopo S. Maria, titolare della prima Chiesa Madre di Caltanissetta, il Signore della Città fu il patrono indiscusso di Caltanissetta e il Venerdì Santo, giorno in cui si venera in modo particolare il Crocifisso e si porta in processione per le strade della città, divenne il punto focale da cui partiva tutta la vita sociale e religiosa di Caltanissetta.
La processione, che tuttora è la più imponente della città (insieme a quella di S. Michele), è grandemente solenne, benché manchi di quel clima gioioso delle processioni dei Patroni, per cedere il posto a un clima orante, in considerazione del giorno della Passione di Nostro Signore.
Il Crocifisso
Il piccolo Crocifisso bruno, scolpito nel legno è di epoca incerta e di autore ignoto. Elementi iconografici, quali i tre chiodi e il perizoma, che sostituisce il precedente colobium, fanno propendere per una datazione che va dal XIII al XV secolo, più o meno equivalente alla datazione della chiesetta.
E' uno dei più antichi Crocifissi siciliani, opera, certamente, di scultori siciliani, forse nisseni.
La datazione che lo fa risalire al XIV secolo, già consolidata da tempo, trova conforto nella descrizione che la tradizione fa del luogo del ritrovamento: un luogo scosceso, fuori città, in mezzo alle campagne; quindi ci troviamo in un'epoca, in cui Caltanissetta, che si espanderà proprio verso il Signore della Città nel XIV secolo, era limitata alla zona degli Angeli.
La fattura è delicata, il viso, segnatamente, ha una maestosa serenità, quasi che il Cristo stia dormendo, anziché essere morto.
Non conosciamo quale fosse la Croce originale, probabilmente era di legno povero, all'epoca di Padre Angelico Lipani il Cristo era inchiodato a una bella Croce lignea dipinta in finto marmo verde e blu con disegni bianchi e dorati. Negli anni '60 fu sostituita da una croce in legno e tessere di mosaico argentate e dorate. Durante l'ultimo restauro è stata ripristinata la bella Croce precedente.
E' uno dei più antichi Crocifissi siciliani, opera, certamente, di scultori siciliani, forse nisseni.
La datazione che lo fa risalire al XIV secolo, già consolidata da tempo, trova conforto nella descrizione che la tradizione fa del luogo del ritrovamento: un luogo scosceso, fuori città, in mezzo alle campagne; quindi ci troviamo in un'epoca, in cui Caltanissetta, che si espanderà proprio verso il Signore della Città nel XIV secolo, era limitata alla zona degli Angeli.
La fattura è delicata, il viso, segnatamente, ha una maestosa serenità, quasi che il Cristo stia dormendo, anziché essere morto.
Non conosciamo quale fosse la Croce originale, probabilmente era di legno povero, all'epoca di Padre Angelico Lipani il Cristo era inchiodato a una bella Croce lignea dipinta in finto marmo verde e blu con disegni bianchi e dorati. Negli anni '60 fu sostituita da una croce in legno e tessere di mosaico argentate e dorate. Durante l'ultimo restauro è stata ripristinata la bella Croce precedente.
La lamintanza
Durante la processione del Signore della Città i fogliamari, discendenti storici e spirituali dei primi che rinvennero il Crocifisso, cantano con melodia bizantina la Lamintanza, una versione poetica romanzata della Passione di Nostro Signore di epoca incerta, opera del poeta Diego Nicolaci, come afferma l'ultima strofe.
Secondo quanto riporta il Pitré nella sua raccolta di Canti popolari siciliani Diego Nicolaci era un innocente condannato a morte, non si sa se originario di Resuttano, di Barrafranca, di Pietraperzia o di Caltanissetta. In seguito a una rivelazione soprannaturale la sorella compose il lungo testo poetico e invitò il fratello a impararlo a memoria, onde recitarlo il giorno del supplizio, perché ciò gli avrebbe acquistato la libertà. Diego imparò il testo e, mentre si trovava sul patibolo, pronto ad essere ucciso, lo recitò dinanzi ai presenti, che ne chiesero l'immediata liberazione.
Il testo viene tramandato oralmente di padre in figlio, a causa dell'articolata modulazione melismatica, durante la lunga processione, si cantano soltato poche strofe, e il testo integrale si è potuto ricostruire dopo un attenta analisi filologica fra il testo tramandato dai fogliamari di Caltanissetta, quello resuttanese recepito dal Pitré, e quelli cantati a Barrafranca e Pietraperzia. L'analisi filologica è stata necessaria perché tutte le versioni presentavano lacune o interpolazioni provenienti da altri canti popolari sulla Passione.
O dotti, studienti, studiati
‘nzignati bonu signu d’abeccè,
unu è lu Diu ca sedi ‘nTrinitati
ccu lu Figliu ‘i Mari’ ca Patri nn’è:
‘nCelu c’è tanti virgini ‘mmaculati,
e ppi lu munnu na Riggina c’è,
tutti dicemu: ‘Nnomini di Patri,
e di lu Figliu e Spirdussantu. Ammè.
Iu dicu: Virmarì, grazia blena
Dominis tecu beneditta c’è,
frutti ventri Gesù, fu giustu e veru
e cumu Matri puru e rettu jè,
Prenobis Mari’ fu gravitera,
piccatoribus Cristu natu jè:
nun potti stari cchiù ‘nCelu cum’era;
Diu morsi pì nui, Diu nostru. Ammè.
Diu ppì la nostra morti discinnìu,
calà di ‘nCelu ‘nterra e s’incarnau,
cumu na raja di suli cumpariu,
senza nisciuna macula ristau;
ppì discacciari lu nnimicu riu,
Cristu di ‘nCelu ppì n’arma calau:
trentatrianni caminannu jìu,
na mentri ca lu munnu riscattau.
Lu jornu di li Parmi nostru Signuri
tuttu lu munnu si misi a girari,
girannu paiseddi e boschi oscuri
la Liggi Santa ci jiva a pridicari.
-Unni va’, Figliu miu di tantu amuri?
All’ortu di Gilussemmi, miu Favuri.
-Figliu, chi ci va’ a fari? – Vaju a muriri,
pacenzia aviti di li me duluri!
Ti nni va’, Figliu, e a cu’ m’arraccumanni?
Cumu sula mi lassi, o vita mia?
Si tu sulu mi cerchi e m’addumanni,
ora cumu farrò senza di tia?
Specchiu di l’occhi mei, Favuri granni,
mi vistirò di niuru a la stranìa!
-O santa Matri, vi lassu a Giuvanni,
iddu v’adurirà ppì parti mia-.
Ci rispusi Maria la scunsulata:
-‘Nca a Giuvanni mi lassi e vo’ partiri;
sula mi lassi, scuntenta e addulurata?
È chista, o Figliu, pena di muriri!
Nun vogliu ca t’arrassi ‘na pidata,
unni ti nni va’ tu vogliu viniri;
camina avanti e ‘nzignami la strata,
chi unni finisci tu, vogliu finiri.
Tocca muriri a mia, Matri amurusa,
nun ‘mporta, Spranza mia, ca mi ‘ntrateni:
o Matri santa affritta e lagrimusa,
‘ddulurata di lagrimi, suspiri e peni,
binidicitimi, Matri rispittusa,
ca pri mia sulu cunsugliu si teni,
la morti mia sarà vitturiusa,
vogliu a li piccatura ‘stremu beni.
Ti binidicu lu stentu e l’affanni,
li novi misi ca ‘nventri ti tinni,
lu locu unni nascisti a tutti banni,
lu latti ca ti detti di li minni,
li canti di la naca, Amuri granni,
li diversi pinzera o li disinni;
chiamammu a Petru, Jabicu e Giuvanni,
persi lu dicu Figliu! Oh chi m’abbinni!
Gesù Cristu a mentri ca partìu
tri di l’apostuli so’ si nni chiamau,
Jabicu, Petru e Giuvanni ci jìu,
all’ortu di Gersemmiu arrivau;
arrivannu chi fici l’autu Diu,
risguardau ‘nCelu e ‘nmenti so’ pinzau:
li sudura di sangu ca spargìu,
fu cunfortu ca a tutti ni sarvau.
Giuda si nni pagau di la Judìa,
di la munita so’ trenta dinari;
e cu la perba cunsigliu tinìa,
uprava u tradimentu c’havìa a fari;
Giuda ci dissi: lassati fari a mia,
ca a Gesuzzu ‘mputiri v’haju a dari;
iddi su’ quattru di la cumpagnia
ma a cu’ vasu jiu v’hat’a pigliari.
Si misiru a caminari arrabbiati,
Giuda d’avanti sempri si ni jìa;
all’autri ci dicìa: -Caminati,
‘un facemu ca s’ammuccia pì la via!
Cristu ci dici all’apostuli: -Vigliati!
Viniri sentu ‘na gran cumpagia;
tutti susitivi ora, taliati,
chissu è Giusda ca veni pì mia.
Tutti vennu pì mia, giù lu viditi,
Giuda davanti e appressu li surdati;
cari apostuli mei, cchiù nun durmiti,
oh chi sonnu crudili, o ‘mpietati!
Jabicu! Petru! Apostuli, nun sintiti?
Giuvanni, veni ccà, pì caritati:
tu si lu ‘nguentu di li me’ firiti,
cunfortu di Mari’, Summa Bontati.
Tuttu abbissatu Giuda l’abbrazzau
arrivannu ca fici a l’autu Diu,
e di nnomu Maistru lu chiamau:
ma Gesù Cristu nun c’arrispunnìu.
Ccu l’occhi ‘nterra nun lu risguardau,
era addannatu di quannu nascìu:
vasannu ca lu fici s’arrassau
‘nmanu lu detti a lu populu riu.
Manc’unu si cummossi a pietati,
tiranu pp’i capiddi a la canina,
essennu tutti di na vuluntati,
-Strascinatilu! Chi havi ca nun camina?
Gridanu a Gersalemmi pì li strati:
-L’amu truvatu a cu’ misi ruvina!
Spiavanu: -Unn’è ca lu purtati?-
-Nni Caifassu, quantu ca lu samìna!-
Caifassu a Gesu Cristu l’assurbìu
ccu li manu ligati ‘nginucchiatu,
chi macula vo’ aviri un giustu Diu,
d’essiri nettu e puru di piccatu?
Po’ quannu a lu barcuni comparì,
ci dissi: -A st’omu l’haju ‘ntrinsicatu
‘ccussì truvati ‘nforma vi dicu jiu,
murennu st’omu lu munnu è sarvatu.
C’un cori affisu a Gesuzzu si traru
e ‘ncasa di Pilatu fu purtatu;
arrivannu ca ficiru, gridaru:
Pilatu c’affaccià, l’hannu chiamatu,
dissiru: Olà! – E Gesuzzu c’ammustraru:
-Avemu st’omu di curtu purtatu.-
Iddu ci spìa si lu cunnannaru:
-Gnurnò, sarà pì vui giustiziatu!-
E Pilatu ad Erodi lu mannau;
chiddu ch’era lu tuttu, accunsintìa,
e macari a lu so figliu ammazzau
pp’a mala vuluntati ca c’havìa
arrivanni, a Gesuzzu lu spugghiau
cu na grann’ira e granni radumìa;
cu na vesta di russu l’ammustrau,
po’ lu detti ‘mputiri a li Judìa.
Ci dissi: - Ora attinniti a caminari;
cu ssa vesta di re è cunnannatu,
e si di n’autra vesta vi cumpari,
pari di nova forma giudicatu,
arrivannu ca fa, l’hat’acchianari
avanti u tribunali di Pilatu;
e si Pilatu ‘un lu vo’ cunnannari
di lu so’ offici uni sarà livatu.
Misiru a caminari arrabbiatu
Petru davanti di la cumpagnia;
ci ‘nfrunta na dunzella di Pilatu,
ci dici: - Susu parlanu pì tìa. –
Pilatu ca lu ‘ntisi l’ha chiamatu:
-Veni ccà, vecchiu di la Cananìa;
Canusci st’omu? – Gnurnò – ci l’ha nigatu;
tannu dissi ca a Diu ‘un lu canuscìa!
Tannu tri voti lu gaddu cantau,
e Petru di l’erruri si pintìu:
Pirdunu a Gesù Cristu addimannau:
-Pirdunatimi vui, Signuri Diu.-
Allura di l’offisa s’amminnau
‘nanti a misericordia di Diu;
Giuda, ch’era ‘stinatu, si dannau
a li profunni abissi si ni jìu!
Agghiorna lu santu Venniri matinu
la santa matri si misi ‘ncamminu.
La scontra san Giuvanni pì la via
ci dici: Unni jiti, Matri mia?
-Vaju circannu a Gesù Nazzarenu,
mi l’arrubbaru e nun sacciu cu fu.
-Va jiti ni li casi di Pilatu,
ca lu truvati ‘nchiusu e ‘ncatinatu!
‘Npalazzu l’acchianaru di Pilatu,
ligatu forti pì nun ci scappari,
stetti cinc’uri e menza ‘nginucchiatu,
e Pilatu lu misi a ‘saminari:
e la so’ spusa si l’havìa sunnatu,
ci dissi: -A st’omu nun lu cunnannari,
ca è lu re di gloria calatu;
sta, averti chi fa, nun ti dannari.
Si misiru a gridari a vuci forti:
-Siddu Pilatu st’omu nun cunnanna
dicemu tutti darreri li porti:
Erodi di li stati ni lu manna-,
Pilatu u ‘ntisi, e lu ligà ben forti
a la culonna cu voglia tiranna:
-Avemu a st’omu cunnannari a morti;
e sangu ca nun n’havi a nudda banna.
E di ddà stissa banna ‘un jeru arrassu,
‘nta lu palazzu di Pilatu stissu;
lu cori avìanu cchiù duru d’un sassu,
dicennu tutti: -Fragillamu a chissu!-
Di la morti di Diu tinìanu spassu,
era di tutti cadutu ‘ncummissu
nisciunu si muvìa di lu so’ passu,
gridannu: -Lu vulemu crugifissu!-
Chistu jè! Ecce Omu! peju lu vuliti
ca l’ossa di li carni su’ cascati?
Nun havi aspettu d’omu e lu viditi!-
Manc’unu si smuvìa a pietati!
-Faciti la cunnanna, vu’ faciti
quantu prestu ‘mputiri ni lu dati;
si a la cunnanna nun accunsintiti
Erodi vi ni manna di li stati.
Nun cura la cuscenza e lu sapiri
pp’ ‘un cadiri ‘ndisgrazia, Pilatu:
e pì dari ad Erodi ssu piaciri
nun si curava si murìa dannatu;
di po’ lu detti a l’Abbrei ‘mputiri;
si ni lava li manu, e ci l’ha datu;
la perba accuminzaru tutti a diri:
-La cruci è pronta; a morti è cunnannatu!
Gesuzzu era ligatu e caminava,
a lu munti Carvaniu si ni jìa:
‘ncoddu na cruci pisanti purtava,
tuttu lu munnu ‘ncoddu lu tinìa;
e ‘gnadunu di chiddi ca ci trava,
pì vidiri cu cchiù corpu facìa,
chi rimuttuna! La cruci gravava!
A ogni du’ passi, tri voti cadìa.
Si partìu Maria la scunzulata,
Giuvanni, Nicodemu cu Mattìa,
eranu misi ‘nmenzu di ddà strata,
unni l’Eternu Diu passari havìa;
passa l’Eternu Diu ‘nmenzu dd’armata,
la santa Matri vidri lu vulìa,
era di sangu la facci allagata,
era so Figliu e nun lu canuscìa!
-Ti chiangiu, caru Figliu, ubbidienti,
a stu puntu la mamma t’addivau?
Si’ ‘nmenzu di l’Abbrei scunuscenti!-
Maria quannu lu ‘ntisi assimpicau,
la Vronica si partì amurusamenti
cu lu velu la facci ci studia,
lu santissimu visu risbrannenti
la riforma a lu velu ci lassau.
Gesuzzu lu purtaru a lu Carvariu,
unn’eranu ddi cani d’avirseriu;
lu misiru a la cruci senza sbariu,
p’iddu nun ci fu nuddu rifrigeriu;
tutti curreru contra l’avvirsariu
ca c’era ddà lu ‘ngiustu e malu ‘mperiu;
ma di muriri Diu fu nicissariu
pì purtarinni tutti a lu so ‘mperiu.
Cu disideriu e bona vuluntati
s’abbrazza a chidda cruci signurali,
unni pusari ddi carni sagrati,
lu vosiru a so’ vista fragillari.
Travanu cumu cani arrabbiati
pp’ ‘i pedi, pp’ ‘i manu, pp’agghicari
c’hannu appizzatu tri chiova spuntati
pì dari cchiù duluri a lu passari.
Lu cori ci niscìa, l’addimannau,
dissi: Sizziu! A sesta l’autu Diu;
ci dettru oppiu e acitu e lu pigghiau;
si lu pigghiau pì l’amuri miu!
‘Mpintu a li labbra l’oppiu ci ristau,
l’acitu pp’arrifriscari ci sirvìu,
tutti di vina ‘nvina lu tagghiau,
fu turmintatu fina ca murìu.
Si partìu Maria la scunsulata
quann’era ‘nfini e pocu sciatu havìa:
-Binidicitimi, Mammuzza amata,
moru e vi lassu a Giuvanni pì mia.
Maria a la cruci si tinìa abbrazzata,
unni lu sangu lavini facìa;
l’occhi a la cruci, sicca e spaventata,
e vitti lu so Figliu ca finìa.
Maria a la cruci facìa gran lamenti:
-Ti tinisti a me’ Figliu, ci dicìa,
ca ji lu fici e tu lu teni ‘nmenti,
si’ nova mamma, chiamata Maria,
dammi na parti di li to’ turmenti,
quann’ ‘un viju a me’ Figliu, viju a tìa,
sarannu aguali e to’ li finimenti
Gesuzzu mortu e divisu di mìa.
Pì dari pena a vu’, Patri amurusu,
lu cecu na lanciata v’ha tiratu;
vi detti un corpu tantu piatusu,
v’ha apertu lu santissimu custatu!
‘na stizza di lu sangu priziusu
c’jìu ‘ntra l’occhi e la vista c’ha datu,
vitti lu munnu tuttu luminusu
si pintìu e ci detti u regnu bìatu.
Cristu sinnu a la Cruci Mari’ vinni
cu Marta, Maddalena e San Giuvanni;
ca jiu la mamma, a vidiriti vinni
ca ‘ncruci t’hannu misu chissi tranni,
piglia ssà scala ca me’ Figliu scinni,
quantu ci vasu li sagrati carni.
Comun un vogliu chiangiri, amici digni,
ca un Figliu persi di trentatrianni?
Lu scinniru d’a cruci e l’hannu datu
‘mbrazza a l’addulurata di Maria,
idda lu chiangi, Figliu duci, amatu,
cunfortu di la mamma, o vita mia!
Gigliu di gloria, stinnardu aduratu,
quannu ‘ncapu a li vrazza ti tinìa;
ora ti viju tuttu sfracillatu
mortu, senza favuri, a la stranìa.
Maria da lu Carvaniu si partìu,
Giuseppi e Nicodeu l’accumpagnau
e a lu monumentu si juncìu
pì sepelliri ddu corpu sagratu.
Lu corpu di Gesù si sipillìu,
l’affritta di Maria sula arristau;
la pupidda di l’occhi la pirdìu,
pì cumpagnu Giuvanni c’arristau.
Stari nun pozzu senza lu to’ ajutu,
comu mi lassi, Figliu duci, amatu!
E mannamillu tu quarchi salutu,
lu munimentu sia raccumannatu.
Allura u munimentu s’ha affrutu
la sipultura s’apri e ‘un s’ha truvatu,
ca ‘nforma d’omu a la cruci ha murutu
e cumu veru Diu ha risuscitatu.
Lodamu a Diu Cristu onnipotenti,
ca iddu si purtà li Patrissanti;
angili e santi filici e cuntenti,
ca fannu fenti cu giubili e canti.
Aduramu du specchiu risbrannenti,
godinu ‘nParadisu triunfanti
e lu Cifaru ‘nfilici e scuntenti
discacciatu di Diu ‘ntra peni tanti.
Cristu p’amari a nui la vita sfici,
pì dari all’omu Paradisu e paci,
Diu ni manteni, Diu ni binidici,
pì tutti li so’ regni ni cumpiaci:
ora accustamu facemmuni amici
‘vanti l’Eternu Diu, Patri di Paci!
Vo’ sapiri sti parti cu’ li fici?
Fu lu pueta Deca Niculaci.
Secondo quanto riporta il Pitré nella sua raccolta di Canti popolari siciliani Diego Nicolaci era un innocente condannato a morte, non si sa se originario di Resuttano, di Barrafranca, di Pietraperzia o di Caltanissetta. In seguito a una rivelazione soprannaturale la sorella compose il lungo testo poetico e invitò il fratello a impararlo a memoria, onde recitarlo il giorno del supplizio, perché ciò gli avrebbe acquistato la libertà. Diego imparò il testo e, mentre si trovava sul patibolo, pronto ad essere ucciso, lo recitò dinanzi ai presenti, che ne chiesero l'immediata liberazione.
Il testo viene tramandato oralmente di padre in figlio, a causa dell'articolata modulazione melismatica, durante la lunga processione, si cantano soltato poche strofe, e il testo integrale si è potuto ricostruire dopo un attenta analisi filologica fra il testo tramandato dai fogliamari di Caltanissetta, quello resuttanese recepito dal Pitré, e quelli cantati a Barrafranca e Pietraperzia. L'analisi filologica è stata necessaria perché tutte le versioni presentavano lacune o interpolazioni provenienti da altri canti popolari sulla Passione.
O dotti, studienti, studiati
‘nzignati bonu signu d’abeccè,
unu è lu Diu ca sedi ‘nTrinitati
ccu lu Figliu ‘i Mari’ ca Patri nn’è:
‘nCelu c’è tanti virgini ‘mmaculati,
e ppi lu munnu na Riggina c’è,
tutti dicemu: ‘Nnomini di Patri,
e di lu Figliu e Spirdussantu. Ammè.
Iu dicu: Virmarì, grazia blena
Dominis tecu beneditta c’è,
frutti ventri Gesù, fu giustu e veru
e cumu Matri puru e rettu jè,
Prenobis Mari’ fu gravitera,
piccatoribus Cristu natu jè:
nun potti stari cchiù ‘nCelu cum’era;
Diu morsi pì nui, Diu nostru. Ammè.
Diu ppì la nostra morti discinnìu,
calà di ‘nCelu ‘nterra e s’incarnau,
cumu na raja di suli cumpariu,
senza nisciuna macula ristau;
ppì discacciari lu nnimicu riu,
Cristu di ‘nCelu ppì n’arma calau:
trentatrianni caminannu jìu,
na mentri ca lu munnu riscattau.
Lu jornu di li Parmi nostru Signuri
tuttu lu munnu si misi a girari,
girannu paiseddi e boschi oscuri
la Liggi Santa ci jiva a pridicari.
-Unni va’, Figliu miu di tantu amuri?
All’ortu di Gilussemmi, miu Favuri.
-Figliu, chi ci va’ a fari? – Vaju a muriri,
pacenzia aviti di li me duluri!
Ti nni va’, Figliu, e a cu’ m’arraccumanni?
Cumu sula mi lassi, o vita mia?
Si tu sulu mi cerchi e m’addumanni,
ora cumu farrò senza di tia?
Specchiu di l’occhi mei, Favuri granni,
mi vistirò di niuru a la stranìa!
-O santa Matri, vi lassu a Giuvanni,
iddu v’adurirà ppì parti mia-.
Ci rispusi Maria la scunsulata:
-‘Nca a Giuvanni mi lassi e vo’ partiri;
sula mi lassi, scuntenta e addulurata?
È chista, o Figliu, pena di muriri!
Nun vogliu ca t’arrassi ‘na pidata,
unni ti nni va’ tu vogliu viniri;
camina avanti e ‘nzignami la strata,
chi unni finisci tu, vogliu finiri.
Tocca muriri a mia, Matri amurusa,
nun ‘mporta, Spranza mia, ca mi ‘ntrateni:
o Matri santa affritta e lagrimusa,
‘ddulurata di lagrimi, suspiri e peni,
binidicitimi, Matri rispittusa,
ca pri mia sulu cunsugliu si teni,
la morti mia sarà vitturiusa,
vogliu a li piccatura ‘stremu beni.
Ti binidicu lu stentu e l’affanni,
li novi misi ca ‘nventri ti tinni,
lu locu unni nascisti a tutti banni,
lu latti ca ti detti di li minni,
li canti di la naca, Amuri granni,
li diversi pinzera o li disinni;
chiamammu a Petru, Jabicu e Giuvanni,
persi lu dicu Figliu! Oh chi m’abbinni!
Gesù Cristu a mentri ca partìu
tri di l’apostuli so’ si nni chiamau,
Jabicu, Petru e Giuvanni ci jìu,
all’ortu di Gersemmiu arrivau;
arrivannu chi fici l’autu Diu,
risguardau ‘nCelu e ‘nmenti so’ pinzau:
li sudura di sangu ca spargìu,
fu cunfortu ca a tutti ni sarvau.
Giuda si nni pagau di la Judìa,
di la munita so’ trenta dinari;
e cu la perba cunsigliu tinìa,
uprava u tradimentu c’havìa a fari;
Giuda ci dissi: lassati fari a mia,
ca a Gesuzzu ‘mputiri v’haju a dari;
iddi su’ quattru di la cumpagnia
ma a cu’ vasu jiu v’hat’a pigliari.
Si misiru a caminari arrabbiati,
Giuda d’avanti sempri si ni jìa;
all’autri ci dicìa: -Caminati,
‘un facemu ca s’ammuccia pì la via!
Cristu ci dici all’apostuli: -Vigliati!
Viniri sentu ‘na gran cumpagia;
tutti susitivi ora, taliati,
chissu è Giusda ca veni pì mia.
Tutti vennu pì mia, giù lu viditi,
Giuda davanti e appressu li surdati;
cari apostuli mei, cchiù nun durmiti,
oh chi sonnu crudili, o ‘mpietati!
Jabicu! Petru! Apostuli, nun sintiti?
Giuvanni, veni ccà, pì caritati:
tu si lu ‘nguentu di li me’ firiti,
cunfortu di Mari’, Summa Bontati.
Tuttu abbissatu Giuda l’abbrazzau
arrivannu ca fici a l’autu Diu,
e di nnomu Maistru lu chiamau:
ma Gesù Cristu nun c’arrispunnìu.
Ccu l’occhi ‘nterra nun lu risguardau,
era addannatu di quannu nascìu:
vasannu ca lu fici s’arrassau
‘nmanu lu detti a lu populu riu.
Manc’unu si cummossi a pietati,
tiranu pp’i capiddi a la canina,
essennu tutti di na vuluntati,
-Strascinatilu! Chi havi ca nun camina?
Gridanu a Gersalemmi pì li strati:
-L’amu truvatu a cu’ misi ruvina!
Spiavanu: -Unn’è ca lu purtati?-
-Nni Caifassu, quantu ca lu samìna!-
Caifassu a Gesu Cristu l’assurbìu
ccu li manu ligati ‘nginucchiatu,
chi macula vo’ aviri un giustu Diu,
d’essiri nettu e puru di piccatu?
Po’ quannu a lu barcuni comparì,
ci dissi: -A st’omu l’haju ‘ntrinsicatu
‘ccussì truvati ‘nforma vi dicu jiu,
murennu st’omu lu munnu è sarvatu.
C’un cori affisu a Gesuzzu si traru
e ‘ncasa di Pilatu fu purtatu;
arrivannu ca ficiru, gridaru:
Pilatu c’affaccià, l’hannu chiamatu,
dissiru: Olà! – E Gesuzzu c’ammustraru:
-Avemu st’omu di curtu purtatu.-
Iddu ci spìa si lu cunnannaru:
-Gnurnò, sarà pì vui giustiziatu!-
E Pilatu ad Erodi lu mannau;
chiddu ch’era lu tuttu, accunsintìa,
e macari a lu so figliu ammazzau
pp’a mala vuluntati ca c’havìa
arrivanni, a Gesuzzu lu spugghiau
cu na grann’ira e granni radumìa;
cu na vesta di russu l’ammustrau,
po’ lu detti ‘mputiri a li Judìa.
Ci dissi: - Ora attinniti a caminari;
cu ssa vesta di re è cunnannatu,
e si di n’autra vesta vi cumpari,
pari di nova forma giudicatu,
arrivannu ca fa, l’hat’acchianari
avanti u tribunali di Pilatu;
e si Pilatu ‘un lu vo’ cunnannari
di lu so’ offici uni sarà livatu.
Misiru a caminari arrabbiatu
Petru davanti di la cumpagnia;
ci ‘nfrunta na dunzella di Pilatu,
ci dici: - Susu parlanu pì tìa. –
Pilatu ca lu ‘ntisi l’ha chiamatu:
-Veni ccà, vecchiu di la Cananìa;
Canusci st’omu? – Gnurnò – ci l’ha nigatu;
tannu dissi ca a Diu ‘un lu canuscìa!
Tannu tri voti lu gaddu cantau,
e Petru di l’erruri si pintìu:
Pirdunu a Gesù Cristu addimannau:
-Pirdunatimi vui, Signuri Diu.-
Allura di l’offisa s’amminnau
‘nanti a misericordia di Diu;
Giuda, ch’era ‘stinatu, si dannau
a li profunni abissi si ni jìu!
Agghiorna lu santu Venniri matinu
la santa matri si misi ‘ncamminu.
La scontra san Giuvanni pì la via
ci dici: Unni jiti, Matri mia?
-Vaju circannu a Gesù Nazzarenu,
mi l’arrubbaru e nun sacciu cu fu.
-Va jiti ni li casi di Pilatu,
ca lu truvati ‘nchiusu e ‘ncatinatu!
‘Npalazzu l’acchianaru di Pilatu,
ligatu forti pì nun ci scappari,
stetti cinc’uri e menza ‘nginucchiatu,
e Pilatu lu misi a ‘saminari:
e la so’ spusa si l’havìa sunnatu,
ci dissi: -A st’omu nun lu cunnannari,
ca è lu re di gloria calatu;
sta, averti chi fa, nun ti dannari.
Si misiru a gridari a vuci forti:
-Siddu Pilatu st’omu nun cunnanna
dicemu tutti darreri li porti:
Erodi di li stati ni lu manna-,
Pilatu u ‘ntisi, e lu ligà ben forti
a la culonna cu voglia tiranna:
-Avemu a st’omu cunnannari a morti;
e sangu ca nun n’havi a nudda banna.
E di ddà stissa banna ‘un jeru arrassu,
‘nta lu palazzu di Pilatu stissu;
lu cori avìanu cchiù duru d’un sassu,
dicennu tutti: -Fragillamu a chissu!-
Di la morti di Diu tinìanu spassu,
era di tutti cadutu ‘ncummissu
nisciunu si muvìa di lu so’ passu,
gridannu: -Lu vulemu crugifissu!-
Chistu jè! Ecce Omu! peju lu vuliti
ca l’ossa di li carni su’ cascati?
Nun havi aspettu d’omu e lu viditi!-
Manc’unu si smuvìa a pietati!
-Faciti la cunnanna, vu’ faciti
quantu prestu ‘mputiri ni lu dati;
si a la cunnanna nun accunsintiti
Erodi vi ni manna di li stati.
Nun cura la cuscenza e lu sapiri
pp’ ‘un cadiri ‘ndisgrazia, Pilatu:
e pì dari ad Erodi ssu piaciri
nun si curava si murìa dannatu;
di po’ lu detti a l’Abbrei ‘mputiri;
si ni lava li manu, e ci l’ha datu;
la perba accuminzaru tutti a diri:
-La cruci è pronta; a morti è cunnannatu!
Gesuzzu era ligatu e caminava,
a lu munti Carvaniu si ni jìa:
‘ncoddu na cruci pisanti purtava,
tuttu lu munnu ‘ncoddu lu tinìa;
e ‘gnadunu di chiddi ca ci trava,
pì vidiri cu cchiù corpu facìa,
chi rimuttuna! La cruci gravava!
A ogni du’ passi, tri voti cadìa.
Si partìu Maria la scunzulata,
Giuvanni, Nicodemu cu Mattìa,
eranu misi ‘nmenzu di ddà strata,
unni l’Eternu Diu passari havìa;
passa l’Eternu Diu ‘nmenzu dd’armata,
la santa Matri vidri lu vulìa,
era di sangu la facci allagata,
era so Figliu e nun lu canuscìa!
-Ti chiangiu, caru Figliu, ubbidienti,
a stu puntu la mamma t’addivau?
Si’ ‘nmenzu di l’Abbrei scunuscenti!-
Maria quannu lu ‘ntisi assimpicau,
la Vronica si partì amurusamenti
cu lu velu la facci ci studia,
lu santissimu visu risbrannenti
la riforma a lu velu ci lassau.
Gesuzzu lu purtaru a lu Carvariu,
unn’eranu ddi cani d’avirseriu;
lu misiru a la cruci senza sbariu,
p’iddu nun ci fu nuddu rifrigeriu;
tutti curreru contra l’avvirsariu
ca c’era ddà lu ‘ngiustu e malu ‘mperiu;
ma di muriri Diu fu nicissariu
pì purtarinni tutti a lu so ‘mperiu.
Cu disideriu e bona vuluntati
s’abbrazza a chidda cruci signurali,
unni pusari ddi carni sagrati,
lu vosiru a so’ vista fragillari.
Travanu cumu cani arrabbiati
pp’ ‘i pedi, pp’ ‘i manu, pp’agghicari
c’hannu appizzatu tri chiova spuntati
pì dari cchiù duluri a lu passari.
Lu cori ci niscìa, l’addimannau,
dissi: Sizziu! A sesta l’autu Diu;
ci dettru oppiu e acitu e lu pigghiau;
si lu pigghiau pì l’amuri miu!
‘Mpintu a li labbra l’oppiu ci ristau,
l’acitu pp’arrifriscari ci sirvìu,
tutti di vina ‘nvina lu tagghiau,
fu turmintatu fina ca murìu.
Si partìu Maria la scunsulata
quann’era ‘nfini e pocu sciatu havìa:
-Binidicitimi, Mammuzza amata,
moru e vi lassu a Giuvanni pì mia.
Maria a la cruci si tinìa abbrazzata,
unni lu sangu lavini facìa;
l’occhi a la cruci, sicca e spaventata,
e vitti lu so Figliu ca finìa.
Maria a la cruci facìa gran lamenti:
-Ti tinisti a me’ Figliu, ci dicìa,
ca ji lu fici e tu lu teni ‘nmenti,
si’ nova mamma, chiamata Maria,
dammi na parti di li to’ turmenti,
quann’ ‘un viju a me’ Figliu, viju a tìa,
sarannu aguali e to’ li finimenti
Gesuzzu mortu e divisu di mìa.
Pì dari pena a vu’, Patri amurusu,
lu cecu na lanciata v’ha tiratu;
vi detti un corpu tantu piatusu,
v’ha apertu lu santissimu custatu!
‘na stizza di lu sangu priziusu
c’jìu ‘ntra l’occhi e la vista c’ha datu,
vitti lu munnu tuttu luminusu
si pintìu e ci detti u regnu bìatu.
Cristu sinnu a la Cruci Mari’ vinni
cu Marta, Maddalena e San Giuvanni;
ca jiu la mamma, a vidiriti vinni
ca ‘ncruci t’hannu misu chissi tranni,
piglia ssà scala ca me’ Figliu scinni,
quantu ci vasu li sagrati carni.
Comun un vogliu chiangiri, amici digni,
ca un Figliu persi di trentatrianni?
Lu scinniru d’a cruci e l’hannu datu
‘mbrazza a l’addulurata di Maria,
idda lu chiangi, Figliu duci, amatu,
cunfortu di la mamma, o vita mia!
Gigliu di gloria, stinnardu aduratu,
quannu ‘ncapu a li vrazza ti tinìa;
ora ti viju tuttu sfracillatu
mortu, senza favuri, a la stranìa.
Maria da lu Carvaniu si partìu,
Giuseppi e Nicodeu l’accumpagnau
e a lu monumentu si juncìu
pì sepelliri ddu corpu sagratu.
Lu corpu di Gesù si sipillìu,
l’affritta di Maria sula arristau;
la pupidda di l’occhi la pirdìu,
pì cumpagnu Giuvanni c’arristau.
Stari nun pozzu senza lu to’ ajutu,
comu mi lassi, Figliu duci, amatu!
E mannamillu tu quarchi salutu,
lu munimentu sia raccumannatu.
Allura u munimentu s’ha affrutu
la sipultura s’apri e ‘un s’ha truvatu,
ca ‘nforma d’omu a la cruci ha murutu
e cumu veru Diu ha risuscitatu.
Lodamu a Diu Cristu onnipotenti,
ca iddu si purtà li Patrissanti;
angili e santi filici e cuntenti,
ca fannu fenti cu giubili e canti.
Aduramu du specchiu risbrannenti,
godinu ‘nParadisu triunfanti
e lu Cifaru ‘nfilici e scuntenti
discacciatu di Diu ‘ntra peni tanti.
Cristu p’amari a nui la vita sfici,
pì dari all’omu Paradisu e paci,
Diu ni manteni, Diu ni binidici,
pì tutti li so’ regni ni cumpiaci:
ora accustamu facemmuni amici
‘vanti l’Eternu Diu, Patri di Paci!
Vo’ sapiri sti parti cu’ li fici?
Fu lu pueta Deca Niculaci.